Perché preferiamo i talenti naturali a chi riesce con duro lavoro?

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 14 maggio 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Comincerei dal fatto che l’affermazione implicata nell’interrogativo non è sempre vera o, meglio, non è vera per tutti. Conosco molte persone che, ahimè, mostrano una sorta di avversione per coloro che sono naturalmente dotati, per i “talenti naturali” che poi risultano più bravi della media nell’esecuzione di compiti, prove di abilità ed attività lavorative. Costoro non sono particolarmente dotati e, pertanto, secondo un ragionamento tradizionale di psicologia della personalità, potremmo dire che non riescono ad identificarsi con il talentuoso e, percependolo quale “altro da sé”, tendono inconsapevolmente a penalizzarlo. O, più semplicemente, si può dire che tendono a preferire le persone nelle quali possono immedesimarsi, dotate più di buona volontà che di talento, spesso definite in inglese strivers.

Eppure, ciascuno di noi ha esperienza di persone apparentemente prive di doni particolari nel campo dell’arte e dello sport che sono ammiratrici incondizionate dei talenti che non possiedono. Probabilmente, se si sommano costoro a tutti coloro che a torto o a ragione si identificano con i possessori di talento, si ha quella maggioranza, rilevata in molti studi internazionali, che mostra un debole per chi possiede doti innate, giustificando il titolo di questo articolo.

La tendenza inconsapevole (bias) a preferire il talento naturale, più volte rilevata dalla ricerca psicologica, si ritiene sia stata provata in modo convincente 5 anni fa in uno studio, spesso citato, condotto da un gruppo guidato da Chia-Jung Tsay, una psicologa che ora lavora alla University College London School of Management. La propensione, studiata in relazione alla musica e indicata con l’etichetta di naturalness bias, emergeva in modo evidente. In estrema sintesi: si facevano ascoltare due clip dalla stessa registrazione di un brano di musica classica a dei volontari e si diceva loro che una era l’esecuzione di un musicista provvisto di grande talento naturale e l’altra era la performance di un musicista che era giunto a quel livello grazie ad un duro lavoro. I volontari, che all’intervista avevano dichiarato di dare maggior valore alle abilità acquisite con un faticoso esercizio rispetto a quelle innate, preferirono il brano che credevano eseguito dal musicista naturalmente dotato.

Questo risultato ha indotto Tsay e colleghi a sviluppare ulteriormente le riflessioni e l’esame di questa tendenza, verificandone la presenza in ambiti diversi da quello della musica, e valutandone le conseguenze. Lo studio è stato recentemente pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin. Sono stati esaminati esperti e neofiti nel mondo degli affari: lo stesso profilo è apparso per entrambe le categorie di volontari. Dopo aver dichiarato che l’impegno formativo è molto più importante delle inclinazioni naturali, al momento di giudicare imprenditori ed idee, i partecipanti all’esperimento hanno preferito coloro che erano stati descritti come talenti naturali e le idee che questi avevano espresso.

Un esperimento con esperti di affari ha fatto rilevare che un ipotetico imprenditore formato con un training impegnativo, per ottenere investimenti alla pari di uno dotato naturalmente, doveva avere 4,5 anni di esperienza dirigenziale in più, 28 punti in più di quoziente intellettivo o 39.000 dollari in più di capitale.

Il team di Tsay ha rilevato questa bias nel giudizio anche nel mondo della danza e dello sport. A proposito di quest’ultimo ambito mi sia consentita una considerazione basata su una semplice osservazione non controllata, a differenza di quanto accade nelle condizioni degli esperimenti psicologici, ma basata su fatti che ciascuno può verificare. Il giornalismo sportivo presenta costantemente questa contraddizione, particolarmente evidente nell’ambito del calcio: apprezza e indica quale esempio i professionisti seri che, grazie alla costanza di un duro allenamento quotidiano, raggiungono elevati standard di rendimento al servizio della squadra; ma poi, appena rileva le prodezze di qualche giovane naturalmente dotato, è pronto a trascurare gli onesti lavoratori del pallone per dedicarsi alla celebrazione del nuovo potenziale fuoriclasse e giustificarne compensi astronomici.

Non è irrilevante per la nostra discussione conoscere l’origine dell’interesse di Chia-Jung Tsay per questa tematica. La psicologa è anche una pianista che ha studiato a lungo il suo strumento, raggiungendo un livello di prestazione che le ha consentito di concorrere a numerosi premi. Proprio nel contesto di queste gare, ha potuto verificare non solo la presenza della tendenza nel giudizio che ha poi deciso di studiare, ma anche la diffusa e comune conoscenza di tale bias come un fatto: i musicisti tendono a presentarsi ed apparire più giovani di quanto non siano in realtà e a sminuire o nascondere l’entità e la durata degli esercizi che praticano quotidianamente, per influenzare positivamente le giurie[1].

Questo insieme di elementi compone un quadro che lascia poco spazio all’ipotesi di un’origine inconscia profonda di questa tendenza[2], e ne indica piuttosto una provenienza culturale, anche se profondamente radicata e precocemente acquisita, tanto da risultare spesso inconsapevole.

Se la naturalness bias è di origine culturale, l’esistenza di capacità superiori alla media è un’evidenza di una realtà neurobiologica che si ripropone ad ogni generazione e che, nella sua massima espressione connessa alle abilità creative, ha prodotto il mito del genio[3].

Nel 1500 la parola genio significava ispirazione e faceva riferimento ad uno stato della mente che poteva riguardare ogni persona e che aveva a che fare sia con lo sviluppo di idee che con il desiderio di agire, ossia con quello stato che oggi definiamo motivazione[4]. Sopravvivono, infatti, in molti dialetti le espressioni “aver genio” o “non aver genio” per dire “aver voglia” o “non aver voglia”. Genio, per eccellenza, era dunque una persona costantemente motivata ad operare. Nel Rinascimento, la capacità di intuire, prefigurare e concepire il bello, il nuovo, l’utile e l’efficace era sempre giudicata dall’opera materialmente realizzata, che restituiva la dimensione rassicurante del lavoro nella cultura dell’homo faber. Il genio non era un originale, incostante, volubile o bizzarro produttore di sorprendenti effetti, ma un costante, perseverante, lavoratore sublime[5].

Al contrario, nell’immaginario collettivo resistono stereotipi e modelli della persona geniale largamente influenzati da una concezione bene espressa da Henri de Montherland in La Génie et les fumisteries du Divin:

 

Voi credete che io sia venuto per giocare con voi, ed io sono venuto per confondere il gioco. Voi credete che baro perché credete che giochi con voi, e non vedete che non gioco con voi. Quando pensavate di tenermi, mentre sono io che vi salto sulle spalle, non l’ho fatto apposta. In eterno vi sfuggo, e non lo faccio apposta. Voi non mi cercate dove sono, né quando vi sono, né dove vado. Vinco a tutte le giocate, e se perdo è solo per variare un po’[6].

 

La cultura degli ultimi due secoli ha prima conferito aspetti inquietanti e luciferini alle persone più dotate della media – quasi a consolare i mediocri del loro stato di “sana sufficienza” contrapposta ad una eccezionalità maledetta o malata – ed ha poi distrutto con il mito anche la personalità tradizionale dell’artista. In altre parole, sulla scorta delle mode di pensiero introdotte da movimenti artistici ed avanguardie varie, si voleva la persona naturalmente dotata come “intrinsecamente diversa” dalla persona comune. L’ottica scientifica pone in rilievo la differenza nelle strumentalità cognitive, oltre che nell’elaborazione percettiva e nell’abilità manuale, ma allontana la suggestione di “creature differenti”.

Riprendere la dimensione degli artisti “lavoratori”, come Dante nel campo della poesia o Michelangelo nell’arte figurativa, ci avvicina di più alla comprensione della differenza fra chi è provvisto di talenti e chi solo di buona volontà.

La storiografia artistica ci mostra che la celebrazione della precocità e delle stupefacenti capacità innate di persone speciali, che nell’antichità classica erano ritenute figlie di divinità e in epoca recente etichettate quali “bambini-prodigio”, è stata per secoli parte integrante delle grandi narrazioni biografiche di cui si è nutrita la cultura in generale e la storia dell’arte in particolare. L’Italia è stata forse il paese che più di ogni altro ha contribuito allo sviluppo letterario della celebrazione e alla conservazione culturale di fatti mitici riguardanti la precocità degli artisti. Già nel medioevo il modello della narrazione esemplare delle doti precoci di Giotto, contemporaneo di Dante che presto supera il maestro Cimabue[7], era parte di una concezione che andava ben oltre la cultura della bottega dell’arte. Ma poi, con le “Vite” del Vasari, da Leonardo ai manieristi, ossia dal genio universale alle personalità meno spiccate, la precoce manifestazione di doti innate diventa una costante.

Storicamente l’analisi filosofica ed ideologica di questa tradizione culturale ha portato perfino a negare del tutto che possano esistere individui tanto speciali per qualità innate da meritare l’appellativo di genio. L’esistenza di persone naturalmente dotate di capacità superiori alla media è un fatto incontestabile, ormai da tempo studiato dalle neuroscienze. Non è il prodotto di un’ideologia borghese capitalistica che esalta le differenze come fatto ineluttabile per giustificare l’ingiustizia di nascere ricchi o poveri, come era stato ipotizzato in paesi di cultura comunista alcuni decenni or sono, ma una realtà che sembra avere chiare basi neurobiologiche. Anche da parte dei sostenitori dell’uguaglianza cerebrale si è poi compreso che il valore delle doti naturali non va negato per rifiutare il modello delle differenze di considerazione e potere in base al reddito; anzi, se si conserva nella cultura comune il riconoscimento di questo valore come oggettivo, si garantisce al povero dotato di talento la possibilità di uscire dall’indigenza grazie alla proprie abilità[8].

Ma perché preferiamo i talenti naturali a chi riesce con duro lavoro?

Una spiegazione psicologica a radice antropologica potrebbe essere quella della giustificazione morale costituita dall’esistenza e dal vantaggio di una superiorità innata: “Non sono inadempiente: i miei limiti non dipendono dalla mia scarsa applicazione, ma semplicemente dal fatto che non possiedo certe doti”. In altri termini, potrebbe operare un processo simile alle efficaci razionalizzazioni basate sull’evidenza fisica: “Sono alta un metro e settanta, mentre la mia amica che è diventata una campionessa di pallacanestro è quasi due metri!”. L’esistenza di qualità naturali indipendenti dalla propria volontà e decisive nel determinare un esito prestazionale potrebbe fondare una ratio che viene inconsciamente protetta perché contribuirebbe ad ancorare la stabilità psicoadattativa ad un elemento di realtà.

Ma molti psicologi non sono convinti da una simile spiegazione. Alcuni affermano che l’ineluttabilità potrebbe, al contrario, favorire difese di diniego; naturalmente in un’ottica psicodinamica. Negare le doti altrui, come la volpe della favola di Fedro che non riuscendo a raggiungere l’uva dice che è acerba, compie una svalutazione di ciò che non si possiede, riducendo il rischio di soffrirne la mancanza. In tal caso, la preferenza cadrebbe sistematicamente su coloro che hanno sudato per raggiungere un elevato livello di prestazione.

Altri studiosi, soprattutto fra quelli di formazione neurofisiologica, sostengono invece la necessità di distinguere l’eccellenza nelle prestazioni psicomotorie, come quelle del pianista, della ballerina o del calciatore, da quelle relative ad abilità di più alto grado di astrazione. Operata questa distinzione, si dovrebbero interpretare le differenze più sulla base della psicologia individuale che di una bias generale. Secondo questo punto di vista, la maggioranza che preferisce i talenti naturali sarebbe eterogenea e risulterebbe dal sommarsi di persone che operano la stessa scelta per ragioni diverse.

Ma, concludendo, è bene tornare a Chia-Jung Tsay che ha avanzato questa ipotesi: la naturalness bias deriverebbe dalla convinzione comune che il possesso di doti naturali conferisce una maggiore potenzialità di miglioramento.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli articoli di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-14 maggio 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Mattew Hutson, Why Whiz Kids Win. Sci Am Mind 27 (2): 13, 2016.

[2] Ossia quelle tendenze che la psicoanalisi declinava in termini pulsionali e che l’interpretazione evoluzionistica assegna alle spinte biologiche che talvolta operano al di sotto del livello cosciente al servizio di bisogni primari (da soddisfare per la sopravvivenza dell’individuo) o di bisogni secondari (da soddisfare per la sopravvivenza della specie).

[3] La discussione che segue attinge ad argomenti e temi sviluppati da Giuseppe Perrella nel suo seminario sull’Arte del Vivere.

[4] Ricordiamo che il termine italiano è traduzione ad orecchio (sbagliata) del termine inglese motivation, impiegato originariamente in neurofisiologia e poi adottato dalla psicologia e dal linguaggio comune per indicare l’insieme della conazione (spinta all’azione) e dello stato cerebrale di attivazione e propensione generica ad agire che può rappresentato nella coscienza dichiarativa un desiderio intenso ed attuale.

[5] Cfr. G. Perrella, Pontormo e il suo tempo – riflessioni su Leonardo, Michelangelo e Raffaello. BM&L-Italia, Firenze 2005.

[6] Il testo dal quale è tratto il brano e il suo commento sono stati oggetto di approfondimento al Seminario sull’Arte del Vivere, in particolare nel manoscritto non pubblicato: G. Perrella, Necessità passata del mito ed utilità presente del concetto di genio. Firenze 2005-2007.

[7] La contrapposizione di genius e striver è divenuta uno stereotipo delle biografie artistiche dell’epoca contemporanea, basti vedere l’abile uso che ne fa Ramon Gomez de la Serna, biografo di Picasso, Dalì e tanti altri grandi del Novecento, e l’impiego un po’ forzato di Milos Forman nel film Amadeus, in cui Antonio Salieri è presentato come uno striver, mentre con ogni probabilità era un talento naturale solo meno dotato di Mozart. In proposito, ricordo l’opinione di Perrella che ritiene esista una gamma continua di espressioni intermedie fra quella del genio e quelle delle persone che presentano vari difetti o deficit di processi percettivi, esecutivi e cognitivi. Nel genio – definizione non scientifica, dipendente dall’esistenza di una specifica categoria culturale e di annesse forme di riconoscimento sociale – una serie di fattori favorenti lo stabilirsi di circoli virtuosi di auto-potenziamento precoce avrebbe consentito il pieno sviluppo di abilità fondate su doti naturali possedute in misura straordinariamente maggiore rispetto alla media.

[8] Probabilmente una parte del merito per l’abbandono di questa teoria va data al neuropsicologo Alexander Lurija e ai suoi studi sulle facoltà cognitive.